Costruire il risveglio
Costruire il risveglio è un reportage sul genocidio indonesiano del 1965-66 pubblicato nel libro a tre voci Trilogia della catastrofe, da effequ nel maggio del 2020. Qui potete leggere la prima parte. In fondo alla pagina c’è il link al sito della casa editrice.
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In poco più di sei mesi, dalla fine del 1965 alla metà del 1966, furono uccisi circa mezzo milione di membri del Partito Comunista Indonesiano (Partai Komunis Indonesia o PKI) e di organizzazioni a esso affiliate. Circa un altro milione di persone fu detenuto senza capi d’accusa, alcuni per più di trenta anni, e molti furono sottoposti a torture e ad altri trattamenti disumani. Poche delle vittime, o forse nessuna, erano armate, e quasi tutte quelle uccise e detenute appartenevano a organizzazioni politiche e sociali legittime. Non fu una guerra civile. Fu uno dei casi più rapidi e clamorosi, eppure meno esaminati, di omicidi e carcerazioni di massa del ventesimo secolo.
(Robinson G. B., The killing season. A history of the Indonesian massacres, 1965-66, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2018, p. 3, trad. mia;
1.
Scendendo dall’aereo, per prima cosa chiedo l’ora all’uomo seduto accanto nel volo da Singapore. È indonesiano, ho riconosciuto la sua lingua da un breve scambio con l’hostess. Ha circa quarant’anni, giacca nera e camicia bianca. È un viaggiatore seriale, un tipo di persona che si nota in particolare negli aeroporti. Non perché esista solo lì, ovviamente, ma perché in aeroporto – il luogo che frequenta più spesso – mostra una destrezza che in altri luoghi gli è impossibile. Degli aeroporti sa tutto. Li domina. È in perfetto orario, non si perde alla ricerca del gate, la sua valigia è impeccabile. Il sedile che occupa sembra fatto su misura per lui, si allaccia la cintura a occhi chiusi, va in bagno senza ostruire il corridoio. Al metal detector è uno spettacolo vederlo passare come un uccello in volo, mentre gli altri si affannano a cacciare fuori monetine dalle tasche, a slacciarsi gli orologi, a reggersi i pantaloni privi di cinta.
Come me, che tra l’altro l’orologio l’ho perso durante uno scalo. E adesso non riesco nemmeno a ricordare il fuso: più cinque, più otto, più dieci? Il cellulare non mi è d’aiuto, non riesco a connetterlo alla rete locale. Fino a ora vivere in un limbo atemporale non mi è dispiaciuto, ma adesso il tragitto è finito – il volo da Roma a Singapore, lo scalo durato un’eternità, il vagabondaggio alla ricerca dei bagni con un sole impossibile che mi ritrovavo sempre in faccia. Sapere l’ora mi aiuterà a tornare a terra, mi dico. Inoltre, durante il volo l’uomo mi aveva rivolto diverse occhiate curiose. Mi ero mosso in continuazione cercando una posizione adatta al sonno, e lui mi aveva studiato a fondo, come un bizzarro animale visto per la prima volta dal vivo, un insetto che cambia colore in continuazione o un pesce degli abissi. Era certamente incuriosito e interessato a parlarmi, ma non riusciva a rompere l’imbarazzo. Così ho preso l’iniziativa. Mentre mi dice l’ora, sorride mostrando una dentatura perfetta. Sono le sei e trenta di sera.
Ci presentiamo, si chiama Wayan.
«Vede, sta tramontando» dice poi muovendo lentamente un lungo dito ossuto verso la vetrata del pontile d’imbarco. Non indica gli altri aerei, ormeggiati uno accanto all’altro su direttive oblique, ma il mare in fondo alla pista. Dentro l’acqua e in basso, nel cielo, c’è il Sole che cala. Il rosso sanguinolento, screziato dal nero delle nuvole, sembra appartenere a una stella mai vista prima. Ambigua, invadente. Ma è un’illusione. Ogni volta che si viaggia a quote equatoriali ci si convince di essere in un altrove straordinario, e che l’esotismo riguardi anche il Sole.
«Ho perso l’orologio durante lo scalo» dico. «Me lo devo essere tolto quando mi sono buttato a terra per dormire. È stato uno scalo lungo, più di dieci ore. Quando mi sono rialzato, ho dimenticato di raccoglierlo. L’avevo settato in modo che indicasse sia l’ora italiana che quella indonesiana…»
«Un rituale?»
«Qualcosa del genere. Fingo di non allontanarmi mai da casa. Sono un nostalgico».
«Io vengo da Singapore, con me la strategia dell’orologio non funzionerebbe. Stessa ora di qui. E comunque, visto che vivo con mia moglie e con i miei figli, di nostalgie per fortuna non ne ho granché».
«L’Indonesia non le manca mai?»
Muove appena le labbra senza far uscire suoni. L’espressione è enigmatica e involontariamente bizzarra; sembra un personaggio di un film hollywoodiano che eviti una domanda imbarazzante.
«Sono tornato per visitare mia madre» dice poi. «Giusto qualche giorno. Lei non è qui in vacanza, vero? Da dove viene?»
«Sono italiano e no, non sono qui in vacanza» rispondo. Poi metto per la prima volta alla prova la storia che ho inventato per nascondere il vero motivo del mio viaggio: «collaboro con una fondazione artistica di Venezia, la Biennale. Sono qui per visitare gallerie e incontrare artisti».
«Venezia. Ho saputo che il monsone si è spostato lassù, e infatti qui la pioggia non è ancora arrivata». L’espressione seria non cambia, non riesco a capire fino a che punto stia scherzando. Accenno un sorriso. Intanto ci siamo mossi verso l’interno dell’aeroporto, in un ampio corridoio ricoperto da moquette verde e illuminato da luci calde.
«Cosa le ha fatto pensare che non fossi un turista?» chiedo.
«Mi ha rivolto la parola. E poi il modo in cui è vestito. Diverso dal loro, meno sciatto». Abbasso gli occhi per guardarmi. Non indosso niente di speciale: una camicia spiegazzata, un paio di pantaloni neri, delle scarpe chiuse; ma tanto basta a distinguermi dagli australiani in ciabatte e pantaloncini corti che Wayan mi sta indicando con un cenno della testa. Si scapicollano verso l’area visti, non vogliono perdere nemmeno un minuto delle loro agognate vacanze all’equatore; noi, invece, camminiamo lentamente.
«È quasi buio, ma gli australiani anche di notte hanno paura di essere uccisi dai raggi del Sole» dice Wayan mentre veniamo superati da un uomo obeso di mezza età che viaggia da solo come noi. Ha la pelle liscia e lattiginosa, in testa porta un cappello da esploratore che gli ingrandisce il collo da mastino; ha il naso ricoperto da una spessa patina bianca. Io sorrido, ripenso a un passaggio di Una cosa divertente che non farò mai più che ho riletto nel primo tragitto aereo da Roma all’Asia. La frase suonava pressappoco così: «Vaffanculo le creme protettive, con il vecchio ossido di zinco la vostra pelle sarà come quella di un bambino».
Per prepararmi a scrivere questa storia, negli ultimi giorni mi è capitato di leggere diverse non-fiction. Il reportage di David Foster Wallace della sua crociera extralusso dagli Stati Uniti alle coste caraibiche è di natura completamente diversa dal racconto che intendo realizzare quaggiù; eppure ho pensato che avere in mente un testo simile, dallo stile lucido e arguto − e completamente privo di retorica − fosse una buona idea. Voglio affrontare le tragedie del passato indonesiano mantenendo una giusta distanza.
Wayan e io passiamo accanto alla muṣallā, la stanza per la preghiera islamica. Negli aeroporti dei paesi musulmani ce n’è sempre almeno una, e l’Indonesia è il paese a maggioranza islamica più grande del mondo. È vuota, anche se è l’ora della preghiera. Strano, mi dico. Poi ricordo che sono a Bali; qui si professa l’induismo.
«In passato non era così» dice Wayan. Sobbalzo, ma ovviamente non si riferisce a quello che ho appena pensato. «In passato l’isola non era in mano ai turisti», dice, «ma del resto siamo noi che gliela concediamo senza opporre resistenza. Io me ne sono addirittura andato».
«Di che passato parla?»
«Oh, molti anni fa…» dice, elusivo.
Io simulo ingenuità e insisto. «Scusi, non la seguo» dico.
Wayan si guarda intorno e si prende una lunga pausa prima di decidersi a rispondere. «Ci sono due Indonesie. Quella prima del 1965 e quella dopo il 1965. La chiamiamo la tragedia del ’65, qui... Sa di cosa parlo?» Abbassa leggermente la voce.
«Qualcosa so, ma poco. La storia indonesiana da noi non si studia». Scrocchio nervosamente le dita. Devo continuare a mentire, non posso rivelargli che sono a Bali proprio per raccontare il genocidio.
«Credevo che non se ne potesse parlare liberamente, comunque», aggiungo.
«Gliene parlo perché lei è uno straniero. È anche uno dei pochi europei che ho incontrato che ne sa qualcosa, a quanto pare» risponde Wayan stringendo gli occhi.
“Se non è a conoscenza dello sterminio, come fa a sapere che in Indonesia è un tabù?” si starà probabilmente chiedendo.
«Io ero solo un bambino piccolo» continua. «Mia madre ogni tanto fa qualche accenno. Ma molto di rado. I balinesi che hanno vissuto quel periodo preferiscono non ricordare. È un errore, certe cose non andrebbero dimenticate…» Si ferma guardandosi di nuovo intorno. Non sembra volermi dire altro. Io vorrei insistere, saperne di più; non sono riuscito a cogliere la relazione tra genocidio e sviluppo del turismo. Ma non c’è tempo, il nostro incontro s’interrompe bruscamente. Un impiegato dell’aeroporto ci divide indicandomi lo sportello dei visti. Wayan mi stringe la mano sapendo che non ci vedremo mai più. Si allontana dalla parte opposta dell’aeroporto e prima di sparire dietro il vetro opaco di una porta scorrevole mi lancia un’ultima occhiata di saluto. Cosa c’è nei suoi occhi? Immagino una speranza.
In fila per il visto realizzo che dopo l’incontro con Wayan il mio stato d’animo è diventato più positivo. Mi sento ancora un intruso, ma il Paese non pare intenzionato a respingermi. Almeno per ora. Wayan ha parlato di un’Indonesia prima del ’65 e di un’Indonesia del dopo, e io so che questo è vero. So anche che in Indonesia abitano due diverse categorie di persone: quelli che vogliono parlare del genocidio del ’65 e quelli che lo vogliono tenere nascosto. Sono qui per incontrare i primi, e il fatto che accada anche per caso è senz’altro un buon segno.
«Turista» dico all’addetto dei visti, mentendo con scioltezza. Il mio volto è disteso, tengo sotto controllo l’idea paranoica che si conoscano le mia conversazioni via email con i giornalisti, gli attivisti e i professori che incontrerò nelle prossime settimane. L’ansia che mi ha inseguito per tutte le venticinque ore di viaggio, provocando incubi fastidiosi ogni volta che prendevo sonno, ora è sparita.
All’impiegato, comunque, la mia faccia non interessa. Incolla un visto a metà pagina senza alzare la testa e mi restituisce il passaporto con fare sdegnoso. Ho un mese per esplorare quest’immenso arcipelago. Nei primi minuti, mentre attendo il bagaglio al nastro trasportatore, guardo con sufficienza i tassisti che si sbracciano alle porte d’uscita per attirare la mia attenzione; m’investe un clima caldo e umido, ma sopportabile; faccio improbabili ipotesi sui significati nascosti dello smarrimento del mio orologio. Quando prelevo lo zaino dal nastro trasportatore e tiro fuori la giacca a vento – il monsone potrebbe essere di ritorno da un momento all’altro – l’orologio emerge dalla tasca in cui l’ho infilato prima di partire, e cade a terra.
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Per me è la prima volta a Bali ma Federico la conosce piuttosto bene. Viene spesso, è un collezionista d’arte. Al tassista parla in indonesiano. Gli sta indicando un albergo di Kuta. «Stanze spoglie ma decenti. E senza insettacci» dice poi in italiano, rivolto a me. «A meno di dieci euro hai anche la piscina e un giardino bello grande, con palme e tutto. In centro non se ne trovano altre così».
L’ho conosciuto mentre ero impegnato in un’ottimistica ricerca di un trasporto pubblico per il centro. Alcuni cartelli mezzi nascosti ne segnalavano l’esistenza, ma era introvabile. Federico era indaffarato nella stessa impresa. Abbiamo deciso di condividere un taxi, mercanteggiando una cifra decente, la metà di quello che avrebbero pagato gli australiani.
Mentre il taxi lascia la tangenziale e s’inoltra nelle strade della città, Federico mi racconta del suo lavoro. Lo ascolto con poca attenzione, sono impegnato a guardare fuori del finestrino. Con un certo stupore, noto strade in perfette condizioni, aiuole curate, palme alte e verdi, un traffico contenuto. Quando passiamo sul lungomare, piccoli demoni balinesi sfoggiano le loro zanne affilate dalle colonne degli accessi alla spiaggia. È tutto in pietra.
Niente a che vedere con la mia precedente esperienza in Indonesia, a Sulawesi. Di Makassar, la città principale, ricordo motocicli a sciami, grovigli di cavi tesi tra lampioni fracassati che lanciavano scintille nella pioggia; e, quando il cielo si apriva, il Sole che picchiava attraverso un manto di polvere inquinata. Mi ero chiuso in una stanza senza finestre di un albergo agghiacciante, con l’aria condizionata al massimo.
Ambientarmi non era stato facile.
Federico mi chiede il motivo del viaggio. Sono tentato di rifilargli la storia della Biennale, ma rinuncio. La cautela mi sembra eccessiva. Mantengo comunque una certa vaghezza.
«Scrivi della storia indonesiana? Di che periodo in particolare?» chiede.
«Dall’indipendenza a oggi…»
«Ah, sì, dal 1945 in poi, quindi, o sbaglio?»
«No, ricordi bene. L’Indonesia si è dichiarata indipendente nel 1945, anche se poi ha dovuto combattere con i Paesi Bassi fino al 1949. Gli olandesi non volevano mollarla». Sukarno e Mohammad Hatta – i leader del Partito Nazionale Indonesiano, che sarebbero divenuti in seguito il primo presidente e il primo vice-presidente della nazione – dichiararono l’indipendenza durante il power vacuum successivo alla fine dell’occupazione giapponese del 1942. Iniziò un conflitto con i Paesi Bassi durato quattro anni, durante il quale l’Olanda cercò, fallendo, di riottenere il controllo delle ex Indie Orientali.
«Sì, certo» commenta Federico. «E darai un certo spazio agli eventi del 1965, immagino».
«Sì, sì, ovviamente…» rispondo senza riuscire a nascondere un certo stupore. «Sei il primo italiano che incontro che sa di quello che è successo».
«Sono il figlio di Arrigo Cervetto, è normale che lo sappia. Ricordo che mio padre scrisse anche un articolo in merito…»
Quante possibilità ci sono che uno vada dall’altra parte del mondo per indagare sull’annientamento del partito comunista indonesiano e finisca per incontrare il figlio del fondatore di Lotta Comunista, e cioè di uno dei pochi, in Italia, a essersi occupato della tragedia indonesiana nel momento in cui accadde?
Federico cerca di ricordare senza riuscirci il titolo dell’articolo del padre.
«A ogni modo, poi lo cerco e te lo giro», conclude.
Un’altra curiosa coincidenza, a rinforzare una sensazione provata dopo l’incontro con Wayan. Chi crede all’esistenza di demoni bonari che ci svolazzano intorno e che, quando sono di buon umore, ci fanno incontrare le persone giuste, leggerebbe nell’incontro con quest’uomo dalla faccia allegra un altro segno incoraggiante.
Federico avrà un ruolo notevole nella mia avventura. Nei giorni seguenti, ci vedremo spesso, soprattutto la sera. Mi farò raccontare dei suoi giri in scooter alla ricerca di amuleti e ceramiche, e lui mi chiederà dei miei incontri con giornalisti e attivisti. Talvolta la tragicità dei racconti formerà un’eco acuta e dolorosa dentro di me, che Federico mi aiuterà a stemperare.
Come scrive Lawrence Osborne, «capita a tutti di aprirsi con una persona appena conosciuta, ma a me di più. Devo avere una specie di talento per entrare subito in confidenza».
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Più tardi mi ritrovo seduto da solo nel bar-ristorante Vi Ai Pi.
Sono le undici passate, Federico sta probabilmente dormendo. Anch’io ho dormito per un po’, un sonno pesante per la stanchezza, ma ridotto dal jet lag. Ho provato a riaddormentarmi ma la stanza era troppo calda – le finestre le tenevo chiuse per timore di zanzare e malaria e il ventilatore non funzionava a dovere. Sono sceso in strada per un giro di ricognizione e la brezza marina mi ha investito, asciugandomi il sudore della faccia e ridandomi vigore. Ho seguito la strada che risaliva verso l’interno, incuriosito da uno strano rumore. Svoltato l’angolo, ho capito che il rumore era uno sciame di voci umane. Un gruppo di ragazzi inglesi intratteneva un’animata e incomprensibile conversazione, in un accento così stretto che mi sembrava dicessero tutti la stessa cosa, come in quel racconto di Dostoevskij in cui un gruppo di ubriachi interagisce usando un’unica parola. Anche gli inglesi erano completamente ubriachi e sembravano comunicare attraverso un solo suono, variandone tono e intensità. Superato il gruppo, la strada si restringeva, obbligando i pedoni a camminare in bilico su un minuscolo marciapiede per evitare di finire travolti da macchine e scooter. I negozi erano chiusi, la strada pullulava di bar e di piccoli ristoranti, situati in stretti corridoi al piano terra di bassi edifici in cemento. In quell’angusto caos architettonico, aggiornavo mentalmente l’opinione troppo generosa della città che mi ero fatto viaggiando in taxi con Federico.
E poi mi sono fermato, appunto, al Vi Ai Pi, e non perché fosse più decente degli altri locali. A convincermi è stata l’area esterna – sedendomi qui non avrei perso i benefici della brezza – e la posizione. Il Vi Ai Pi è all’incrocio tra la Legian street e la White Rose street, proprio di fronte all’imponente Ground Zero Memorial. Venirlo a visitare era nei miei piani, ma non immaginavo di finirci per caso poche ore dopo l’arrivo. Mentre ordino un succo di mango a una cameriera magrissima con una voce da criceto, lo osservo con attenzione. È stato costruito in ricordo dell’attentato terroristico del 12 ottobre 2002. C’è un alto lastrone di pietra bianca a forma di mitra papale, scolpito con figure geometriche e in cui è incastonata una lastra di marmo nero con i nomi delle vittime; di fronte, una fontana con zampilli di varie intensità e altezze. Il marmo sfavilla di luci verdi e blu che, di notte, lo fanno somigliare all’attrazione di un parco divertimenti. Sono indeciso se considerarle inappropriate o meno.
Cosa direbbero a Berlino se il memoriale della Shoa fosse illuminato allo stesso modo?
Sto qui a riflettere per un po’ di tempo, fino a quando non mi passano davanti gli inglesi di prima. Si fermano davanti alla fontana. Alcuni osservano con sguardi bovini gli zampilli irregolari dell’acqua, altri strabuzzano gli occhi cercando di leggere i nomi sul marmo.
Finisco rapidamente di bere, mi alzo e li raggiungo. Ci metto un minuto buono a individuare quello meno sbronzo. Si chiama Jonathan, un corpo quadrato di vent’anni con il costume calato sotto le ginocchia, gli occhiali da sole sul cappello e una corona in mano. Parla un dialetto comprensibile. Dopo i soliti convenevoli («sì, viaggio da solo»; «no, non seguo il calcio: sono l’unico italiano a non essere mai andato allo stadio») gli chiedo se sappia che cosa rappresenti il memoriale. «Sì che lo so, certo, lo sanno tutti qui, c’è pure una targa da qualche parte», risponde un po’ stizzito. Con un’ampia rotazione della mano indica una direzione indefinibile.
Per un po’ chiedo la stessa cosa a tutti i turisti che si fermano lì davanti. È un esperimento. La risposta alla domanda, come immaginavo, la conoscono quasi tutti: i ragazzi hanno letto del memoriale sulle loro guide, gli adulti hanno visto l’attentato in tv, altri sono stati informati dalla gente del posto. Ma poi chiedo un’altra cosa, alla quale, come in Italia, non sa rispondere nessuno.
A Venezia, prima di partire, avevo trascorso una serata a importunare passanti, chiedendo loro se sapessero del 1965 indonesiano. «C’è stato un evento terribile» dico adesso come ho fatto qualche giorno fa a Campo Santa Margherita. «Ci sono stati morti in tutto il Paese». Come a Venezia, nemmeno qui sanno niente.
Delle ottantamila persone uccise a Bali, e delle altre centinaia di migliaia torturate, massacrate e deportate nel resto dell’Indonesia nessuno sa niente.