Foto di Steve Winter

Vita felice di un leopardo delle nevi

Originariamente pubblicato su Menelique, #6

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Hamed pensò alle cose del Ladakh che non sopportava. L’aria rarefatta, innanzitutto: su quelle montagne ci aveva passato una vita, e ancora gli veniva il fiato corto. Odiava il silenzio in cui ogni rumore ti gela il sangue nelle vene - una frana lontana, il verso di un’aquila, l’urlo di un lupo. Odiava l’ombra perenne nelle gole rinsecchite, che durante le spedizioni avvolgeva lui e i suoi clienti. Odiava il rosso carminio e il beige; quando mai si erano viste montagne di quei colori? In Kashmir non era così: roccia scura, e alberi dappertutto. Laggiù, invece, non cresceva un ciuffo d’erba, solo quei cespugli striminziti, vegetazione da morti, e poi polvere, polvere, polvere. Odiava anche i ladakhi che lavoravano con lui; avevano la pelle lurida, puzzavano, e ogni mattina pregavano una divinità insulsa che minaccia di non lasciarti morire mai.

Ma la cosa che odiava di più, rifletté Hamed, era la nostalgia. Trenta o quarant’anni prima era venuto sull’Himalaya in cerca di avventura e soldi, e li aveva trovati. Al tempo aveva amato le stesse cose che ora disprezzava - tranne il buddhismo, certo, quello restava sempre una roba da imbecilli. Cosa avrebbero pensato il padre e la madre del suo odio per il lavoro e per la terra? Ma la madre e il padre erano morti, come tutti gli altri, e ora erano in paradiso, Inshallah. Inutile farsi il sangue marcio.

«Vorrei bere qualcosa di forte, non ne posso più di questo tè» disse Isabel rivolta alla moglie.

Il sole era calato ed erano tutti seduti a terra nella tenda comune; nell’anticamera, i ladakhi preparavano la solita cena di lenticchie e riso. Avendo sforato il programma di viaggio di diversi giorni, il cibo principesco che le due donne avevano fatto portare lassù era finito. Roba che i ladakhi e Hamed non avevano mai visto in vita loro; pomodori, per esempio. Chi poteva immaginare che i ricchi potessero ancora mettere le mani su dei pomodori?

«Smettila, Isabel» rispose Elvira in un sibilo. «Manchi di rispetto al signor Hamed; e poi lo sai che non abbiamo portato alcool». Piegandosi verso la moglie smise per un attimo di accarezzare la fronte del figlio, che le si era addormentato con la testa sulle ginocchia. Un bambino magro e bianchissimo che non apriva mai bocca.

«Era un modo di dire, stai calma».

«Mi creda», intervenne Hamed senza guardare nessuna delle due, «non è che ogni tanto non abbia voglia anch’io di farmi un goccio».

Il capocuoco, che li aveva sentiti, portò loro tre tazze di gur-gur chai. Elvira appoggiò delicatamente la testa di Eduardo sul tappeto e bevvero in silenzio.

Hamed osservava il ragazzino pensando che somigliava più a un sacco di carne che a un essere umano. Non riusciva a inquadrarlo. Mentre progettava il viaggio insieme alle donne, aveva detto loro che portare un bambino di dodici anni sui sentieri di alta montagna non era una buona idea; avrebbe fatto molta fatica a stare loro dietro. Ma non c’era stato niente da fare, Eduardo doveva venire. Elvira era stata irremovibile: «è un bambino particolare, ma durante la caccia è sempre stato con me; quando sparo alle bestie ci deve essere anche lui».

Hamed tornò a guardare le donne. «Dobbiamo parlare del leopardo» disse.

«Era ora» commentò Isabel, ricevendo un’occhiata fulminea della moglie.

Erano incredibilmente ricche, così ricche da poter ingaggiare per un anno intero la miglior squadra di battitori dell’Himalaya: tanto c’era voluto per rintracciare un esemplare di leopardo delle nevi.

Le due donne erano belle, pensava Hamed, e in apparenza anche molto giovani. Elvira era un tipo muscoloso, con gambe da scalatrice, mentre l'altra era più esile e faceva più fatica ad adattarsi all'asprezza dell’Himalaya. La loro bellezza era ovviamente artificiale, e benché i chirurghi fossero ormai paragonabili a maghi, si intuiva ancora quanto il bisturi avesse inciso i corpi. Per quanto riguarda l’età, potevano avere trenta come sessant’anni. I ricchi rimanevano sempre giovani, fino a quando il cuore o il cervello non alzavano bandiera bianca; allora affogavano di colpo nell’abisso delle loro vite, come pietre nell’acqua nera.

«Di cosa dobbiamo parlare, esattamente?» chiese Elvira.

Hamed le sorrise, mentre lei lo squadrava con aria di sfida.

Gli occhi del cacciatore erano grigi con screziature gialle, grandi, e sulla sua scura faccia ovale era grande anche tutto il resto: le sopracciglia, il naso, le narici, le labbra. Elvira spostò lo sguardo più in basso, al giaccone verde militare sporco di terra, troppo largo anche per le sue enormi spalle, e poi ai calzoni vecchi e agli stivali sporchissimi. L’aveva visto cambiarsi solo una volta e si chiedeva come facesse a non puzzare. Hamed era di statura media e, oltre a non emettere alcun odore, sembrava indistruttibile.

«Dobbiamo parlare della pioggia che sta per arrivare, e dello Zanskar che si sta sciogliendo. Ci siamo dati altri quattro giorni, e finiscono domani, quindi è il caso che--».

«Ah sì? Come vola il tempo» disse Elvira con un sorriso forzato.

«Smettila Elvira, sta a sentire quello che ha da dire il signor Hamed» disse Isabel.

«Dicevo: quindi è il caso che vi riporti a valle. Stanno anche finendo le provviste».

«Ma lei, qualche giorno fa, ha detto che si può sempre tornare giù per la via dei passi».

«E ho anche detto che quel sentiero si prende solo in caso di emergenza. La pioggia qui uccide, l’anno scorso in una frana è sparita un’intera spedizione».

«E quella spedizione non era guidata da lei» continuò a sorridere la donna.

«Oh Gesù, Elvira. Non siamo venute qui per morire» sbottò Isabel. «Siamo venute qui perché a morire fosse il maledetto leopardo».

Il bambino emise una sorta di sibilo e si voltò di lato. Elvira si avvicinò al suo volto, scostò amorevolmente i capelli che gli coprivano la fronte e gli diede un bacio leggero.

«Abbassa la voce, Isabel... Non mi pare che l’abbiamo ancora ammazzato, questo leopardo del cazzo».

«È impossibile che sia ancora vivo, questo lo sai anche tu. Glielo dica anche lei, Hamed».

L’uomo guardava dentro la sua tazza. Aveva già assistito ai loro litigi, intervenire non serviva a nulla.

«Il trofeo, Isabel, quante volte te lo devo ripetere? Voglio la testa» disse Elvira.

Isabel si alzò sbuffando.

«È stato un errore portare--».

«Ti avverto, Isabel, non osare finire la frase!»

La mascella di Isabel si chiuse con uno schiocco e sia Elvira che Hamed videro che per la rabbia gli occhi le si riempivano di lacrime. Uscì rapidamente dalla tenda, nel vento gelido che al tramonto si inoltrava nella gola.

«Sua moglie è molto nervosa, senz’altro, ma ha ragione. Stiamo tirando troppo la corda».

Elvira si voltò verso l’uomo, ancora carica di rabbia; incontrando il suo sguardo autorevole, istintivamente si calmò.

«Lei capisce quanti anni sono che desidero avere il leopardo in casa? Mio  padre l’ha cercato per anni, su queste stesse montagne, e non è mai riuscito a trovarlo».

«Come le ho già detto testimonierò che l’ha ucciso».

«È un fatto simbolico, Hamed, non so se lei può capire. Devo vederlo morire con i miei occhi».

Oh, capisco molto bene, vecchia stupida, pensò Hamed, sai quanti ne ho incontrati come te?

Così rimasero lì dov’erano, a bere il loro té, mentre i ladakhi continuavano a parlare a bassa voce come se gli stranieri non esistessero. Dopo un po’ Elvira decise di tornare alla carica.

«Lei è pagato molto bene e le ho anche promesso il doppio per i giorni extra. E se io pago, lei deve fare quello che le chiedo».

«Vuole sapere se i soldi basteranno a farmi cambiare idea?»

Ora Hamed la guardava freddamente, la tazza appoggiata a terra. Aveva tirato fuori la sua cartuccia portafortuna da una tasca e se la rigirava tra le mani. Un tempo, in una guerra stupida che si era combattuta lassù, aveva ucciso un uomo; era accaduto prima che i ghiacciai cominciassero a sciogliersi e prima che la gente emigrasse per la cronica mancanza d’acqua.

«La risposta è no» disse. «Io sono un cacciatore di professione. E quando dico che bisogna tornare, bisogna tornare. Quando dico che la caccia è finita, è finita».

Nei giorni precedenti la tensione aveva cominciato a crescere, ed era ovvio che prima o poi sarebbe esplosa. Quel momento è arrivato, pensò Hamed. Tanto meglio, non avrebbe più dovuto passare il tempo con quella donna odiosa e il suo figlio inquietante. Avrebbe mangiato da solo e soprattutto avrebbe potuto finalmente stappare il suo chaang. Alla fine di ogni stagione si scolava una bottiglia; si sarebbe ubriacato da solo nella sua tenda, e poi avrebbe ripreso a pregare come si deve, chiedendo perdono ad Allah per aver ucciso una delle sue bestie più belle. Allah avrebbe capito.

Il bambino si mosse; con gli occhi chiusi, senza svegliarsi. Si gettò sulla madre e la abbracciò.

«Mi scusi» disse Elvira. «Ha ragione lei. Faremo come ha detto. Altri due giorni e poi basta».

Niente, pensò Hamed, il mio piano è fallito. Forse si era espresso con troppa durezza e aveva spaventato la straniera, più che provocarla. Sì, doveva essere andata così.

«Potremmo essere fortunati» disse. «Talvolta capita che la bestia si faccia viva poco prima della fine delle spedizioni, che venga incontro a chi le dà la caccia».

«Un animale che va incontro alla morte?»

«Sì, è strano, e non me lo spiego. Ma talvolta capita. Ora non ci pensi, però».

In quel momento i ladakhi cominciarono a preparare i piatti.

«Vado alla tenda a chiamare quell’altra» disse Elvira. «Dovrà pur mangiare qualcosa».

 

-

 

Quella notte Elvira si svegliò poco dopo essersi addormentata, o almeno così le sembrò, visto che aveva fatto sogni brevi e pieni di sangue. Fuori, un vento feroce sollevava frammenti di ghiaccio e creava turbini verticali, decine di piccoli cicloni. La tenda era piantata all’interno di una grotta dal suolo sabbioso, vicino al letto di un fiume estinto. Elvira era raggomitolata nel suo sacco a pelo, e nel sacco a pelo alla sua destra c’era il figlio. Sentiva il suo respiro regolare. Alla sua sinistra, invece, non percepiva quello di Isabel; il sacco a pelo della moglie era vuoto. Non se ne preoccupò, il freddo la faceva andare in bagno di continuo.

Come ogni notte, la sensazione che provava da quando aveva incontrato l’animale tornò ad aggredirla. Si sentiva vuota, ed era una sensazione puramente fisica, nel centro dello stomaco, una fame assoluta e impossibile da soddisfare.

Cinque giorni prima, all’alba, i battitori erano giunti al campo tendato dicendo di aver individuato delle carcasse di capre selvatiche, poco a sud della cresta tra Sisir La e Kalgi. Lì, le montagne erano blu e verdi e si vedevano ancora le tracce del lunghissimo sentiero che un tempo i commercianti di sale percorrevano per raggiungere la Cina - quando i confini di montagna avevano ancora senso, e per difenderli o conquistarli ci si ammazzava. I battitori avevano seguito le tracce di sangue delle prede e ritrovato gli escrementi del leopardo, registrando il suo attuale territorio di caccia. La prima volta che l’avevano visto, un mese prima, era pochi chilometri più a sud, ed era stato facile rimanergli dietro mentre le straniere raggiungevano il Ladakh dal Brasile.

«È una splendida bestia» disse Hamed a Elvira mentre la donna imbracciava il fucile e si metteva lo zaino sulle spalle. «Come non se ne vedono da molto tempo. Saremo lì in poche ore».

«Dove devo sparargli quando ce l’ho a tiro?»

«Gliel’ho già detto. Miri al collo. La porterò sulla parete opposta. Dovremo aspettare che il vento pomeridiano si plachi, poi il leopardo apparirà e noi potremo sparargli».

«Ho una sola possibilità».

«Sì, ha una sola possibilità. Se non lo prende, il leopardo scapperà e molto probabilmente cambierà territorio di caccia. Si spostano di molti chilometri quando capiscono di essere in pericolo».

«Spero di riuscire a colpirlo come si deve».

«Non si preoccupi, lei spara benissimo. Sono anni che si allena per questa caccia, no?».

«Non sbaglia. Non sto più nella pelle».

Lasciarono il campo seguiti da Eduardo e da un paio di porter con le tende e del cibo, nell’evenienza che dovessero passare la notte appostati. Isabel rimase al campo tendato. Così erano i patti.

Camminarono per quattr’ore su un sentiero invisibile che il capo battitore e Hamed seguivano più con la mente che con gli occhi. Era piuttosto ripido, una volta svalicato gli avrebbe permesso di raggiungere il leopardo rimanendo sotto vento.

Elvira era allenata ma faceva fatica a stare dietro agli uomini, sia per via del poco ossigeno che per il sentiero sconnesso. Eduardo, invece, si muoveva con leggerezza straordinaria, lanciandosi in corse veloci con cui aggrediva la montagna, sordo alle urla della madre che lo pregava di fare attenzione.

Quando furono in cresta Hamed chiese silenzio, e Elvira prese Eduardo per mano intimandogli di rimanere accanto a lei. Il ragazzino si placò; non era la prima volta che lui e la madre cacciavano insieme.

Nel primo pomeriggio raggiunsero l’appostamento designato dai battitori, le rovine di un vecchio rifugio per pastori. Oltre al debole soffio del vento, il silenzio era assoluto. L’unica ombra di rumore era il fruscio di un ruscello, lontanissimo o generato da un’allucinazione.

«Adesso ci mettiamo dietro a questo cumulo di sassi, e aspettiamo che il leopardo si faccia vivo» disse Hamed.

«Quanto dovremo aspettare?».

Il kashmiri appoggiò il suo zaino a terra, bevve dalla borraccia e poi puntò il suo vecchio binocolo sovietico sulla parete opposta. Parlò in ladakho con il battitore.

«Il leopardo potrebbe passare di lì tra circa tre o quattro ore» disse a Elvira.

«Bene».

«Sdraiamoci e stiamo zitti». Diede un’occhiata al bambino, seduto a terra alle loro spalle. Si era messo a comporre cerchi con dei sassolini di quarzo.

«Non si deve preoccupare, vedrà che Eduardo starà buono» disse Elvira accarezzando il figlio sulla testa.

Si misero in attesa sul telo cerato, con le canne dei fucili appoggiate a ciò che rimaneva dell’edificio, un basso muretto di pietre. Il bambino si rifiutò di mettersi accanto a loro e, rimanendo seduto, non nascondeva la sommità del capo. Questo preoccupò Hamed. In Eduardo, inoltre, apparve una strana agitazione, dei tremiti, e la madre cercò di tranquillizzare il cacciatore dicendo che era tutto normale e perfettamente sotto controllo. Tre ore dopo apparve uno stormo di uccelli, che volò sopra le loro teste dirigendosi verso la cresta che avevano davanti. Uccelli bianchi e neri che Elvira non aveva mai visto prima.

«Guarda che spettacolo, Eduardo» sussurrò la donna al figlio. Il bambino guardò in alto, aprì leggermente la bocca ed emise uno stridio gutturale, un verso da gatto ferito.

«Sono avvoltoi dell’Himalaya» disse Hamed. «Vanno verso il territorio della bestia. Deve aver lasciato una preda da qualche parte, e loro vanno a prendere quello che resta».

Si attaccò al suo binocolo e ricominciò a scrutare la parete opposta. La roccia era grigia, il leopardo vi si poteva mimetizzare. Hamed si concentrò e percorse lentamente ogni sasso, ogni cespuglio, ogni buco. Risalì il ghiaione e poi, molto in alto, lo vide. Scendeva con calma verso il basso, leccandosi il muso sporco di sangue.

«Prenda il binocolo. Sta scendendo verso la gola. Probabilmente conosce un punto dove c’è ancora dell’acqua. Ora non facciamoci prendere dalla fretta».

Elvira sollevò il suo binocolo nuovo di zecca e se lo piantò sugli occhi con forza.

«Dov’è? Non riesco a vederlo» disse nervosamente.

«Stia tranquilla, non alzi la voce. È lì, accanto a quel cespuglio».

«Cristo, eccolo». Un maschio adulto di più di un metro di lunghezza, col muso corto, stanchi occhi celesti e poca carne sotto lo spesso manto bruno e maculato. La sua spessa coda strusciava a terra, come se il leopardo fosse un assassino che nasconde le sue tracce.

«Eduardo, vieni da mamma. Ecco il leopardo. Guarda che magnificenza». Il bambino non si mosse. Smise di guardarsi le mani e orientò gli occhi dov’era il leopardo. Era difficile che riuscisse a vedere l’animale senza usare il binocolo, eppure ad Hamed sembrava che lo fissasse.

«Abbiamo tempo, ma non possiamo aspettare che vada troppo in basso» disse l’uomo. «Quando supera quel grande sasso nero, tolga la sicura al fucile e carichi il colpo».

Elvira si mise in ginocchio, appoggiò l’occhio sul mirino e il dito sul grilletto. Poi rilassò i muscoli e controllò il ritmo del respiro. Hamed la guardò con ammirazione. Elvira e il suo Sako Finnlight erano diventati una cosa sola.

L’uomo sentì un rumore alle sue spalle e si accorse che il bambino si era alzato in piedi e aveva preso a indicare il leopardo con il dito puntato davanti a sé. La sua faccia era divisa a metà, sulla destra un sorriso acceso, quasi bello, sulla sinistra un’occhio tragico.

«Perché sta accelerando il passo?» chiese Elvira con voce ferma, senza staccare l’occhio dal mirino. Hamed tornò a guardare nel binocolo. Il leopardo si era accorto di loro.

«Il collo Elvira. Il collo o la spalla. Si prepari a sparare. Ecco! Carichi il colpo».

Poi tutto si svolse in pochi secondi. Eduardo emise un urlo improvviso, un urlo profondissimo che Hamed non aveva mai sentito, un grido di paura assoluta e di assoluto desiderio di sconfiggerla. Lo investì e quasi lo fece cadere a terra. Ricordava urla sentite in guerra da uomini torturati col coltello, con l’elettricità e con l’acqua. Il leopardo si gettò in corsa verso la gola, e sulla ghiaia sembrava volare.

«Spari, nel nome di Allah, spari!»

Il rumore fu fragoroso e lungo, crebbe rimbalzando sulle montagne e tornò indietro. Nel silenzio assoluto di quei luoghi, li investì come una granata scoppiata da vicino. Si alzò una nuvola di polvere e, se possibile, la bestia accelerò ancora. Il bambino continuava a urlare.

«L’ha mancato! Spari ancora! Lo tiri giù!».

Il leopardo aveva quasi raggiunto l’ombra della gola, dove sarebbe divenuto invisibile. Un secondo colpo.

Hamed vide una nuvola di sangue sollevarsi da una delle zampe posteriori; l’animale scartò violentemente a sinistra e poi sparì. Il bambino smise di urlare e si accasciò a terra.

 

-

 

Adesso, quando Elvira smise di rimuginare su quello che era successo, la notte era spessa e la donna immaginò fosse molto tardi. Si mise ad accarezzare il braccio che il figlio teneva fuori dal sacco a pelo. Era preoccupata. Dopo l’incontro con il leopardo, non aveva più parlato. Non era la prima volta che accadeva, talvolta non apriva bocca per settimane, ma non era mai successo a causa di un’incidente del genere. Né l’aveva mai sentito urlare a quel modo.

Di lì a poco, Isabel aprì la tenda, si tolse la giacca a vento e gli scarponi e si infilò velocemente nel sacco a pelo.

«Dove sei stata?»

«Stanotte è più freddo del solito, se possibile. Anche senza vento».

«Dove sei stata?»

«Sono andata in bagno. Poi sono rimasta un po’ fuori a prendere una boccata d’aria e a guardare le stelle».

«Non te ne è mai fregato nulla delle stelle. E stanotte le guardi?».

«Abbassa la voce. Svegli Eduardo. Ma poi cos’è tutto quest’astio?»

«Che ore sono?»

«È presto. Saranno le dieci. Quando siamo rientrate in tenda, ti sei addormentata subito. Come mai ti sei svegliata?».

«Sogni».

«Cos’hai sognato?»

«Il leopardo. Non riesco a smettere di pensare alla sua forza.. Vive nel posto più freddo del mondo, è velocissimo, riesce a vedere anche quando è buio pesto. È percezione pura. Voglio la sua percezione per me. Voglio ucciderlo e prendere il suo spirito».

«Non ce la fai, eh? Quello che ti ha detto Hamed proprio non--».

«Non mi piace quell’uomo. Più passano i giorni e meno mi piace».

«È un bravo cacciatore. Ti ha portato al leopardo, no? Cosa vuoi di più? Conosce il territorio molto meglio di noi».

«È vero, ma ragiona d’istinto. Potremmo stare qui più a lungo. Ho studiato a fondo la meterologia del Ladakh e--».

«Oh, Elvira, tu e la tua presunzione. Questi sono nati e vissuti qui. La montagna ce l’hanno sottopelle. Cosa ne vuoi capire tu?»

«Adesso sei tu che stai alzando la voce».

«Senti, è inutile che continuiamo a discutere. Tanto senza Hamed non possiamo certo andare avanti».

«Ma potremmo--».

«Lasciami dormire, ora. Sono stanca».

«Io voglio parlare».

«Allora fallo, ma da sola. Io adesso voglio dormire».

 

-

 

Per la colazione mangiarono khambir spalmato con burro di yak e sale. Hamed mangiò con gusto. L’avventura stava per finire e lui pensava al mare. Voleva andare a vedere il mare. Stavolta aveva fatto davvero bei soldi. Sarebba andato a nord, dove l’acqua non ti distruggeva la pelle e si poteva ancora nuotare.

«Dormito bene?» chiese guardando il bambino. All’inizio del viaggio si erano scambiati un paio di sorrisi, ora era come guardare un muro.

«E lei?» rispose Elvira.

«Decentemente, direi. Non mi posso lamentare».

«Crede che potremo andare a cercare qualche capra selvatica, oggi?» chiese Isabel.

«Capre selvatiche? Vuole provare a sparare anche lei?»

«Beh, non mi dispiacerebbe. Visto che sono qui».

«Isabel, ma cosa stai--».

«Beh, non c’è problema, si può fare» disse il cacciatore. «Possiamo provare a est del Nan. Un paio d’ore di camminata da qui. Da quelle parti si trova ancora qualcosa».

«Tu starai qui al campo e noi andremo a cercare il leopardo, Isabel» disse Elvira. «Come sempre. E lei non dica stronzate, per favore. Non la pago per insegnarci a sparare alle caprette».

«Oh, come volete voi» disse Hamed. Ingoiò rumorosamente il suo boccone, diede una sorsata di tè e prese a rollarsi una sigaretta di marijuana.

«E invece, capre o meno, oggi vengo con voi» disse Isabel.

«No, andremo io e--».

«Smettila Elvira, ho deciso, vengo con voi».

Hamed si alzò richiamato dal capo battitore, Lobsang, che aveva appena raggiunto il campo. Un tibetano magrissimo e dalla pelle scura che aveva il vizio del bere ma fiutava gli animali da chilometri: il suo miglior uomo; era esausto, la notte precedente non aveva chiuso occhio.

Le due mogli erano rimaste sedute a discutere. Elvira fissava la sua tazza di caffè solubile.

«Andiamo? Ci muoviamo verso est, oggi» disse Hamed tornando da loro. Si era rabbuiato. «Lobsang dice di aver trovato qualcosa».

L’uomo fece un verso strano, con gli occhi iniettati di sangue. Le straniere lo rivoltavano ma non poteva fare a meno dei loro soldi. Lui, come tutti gli altri. Sputò a terra.

«Qualcosa?» chiese Elvira.

«Non siamo sicuri» mentì il cacciatore. «Dobbiamo andare a vedere». Lanciò un’occhiata a Isabel.

«Può venire anche lei, ci venga dietro».

«Ho capito, ormai quello che dico io non conta più nulla» disse Elvira.

«Smettila con tutto questo casino. Altrimenti è la volta buona che ti lascio».

«Piantala di fare la dura, Isabel» rise l’altra. «Non mi lasceresti mai».

«Mettimi alla prova».

Hamed le interruppe, spazientito.

«Forza, andiamo. Cammineremo veloce oggi».

Era un bel mattino, non c’era il solito vento gelido e il sole li stava risparmiando della sua crudeltà; Hamed si scoprì a pensare cose che non gli attraversavano la testa da tempo. Desiderò che la bestia scappasse, che non si facesse trovare. Immaginò che riuscisse a cacciarsi fuori il proiettile dalla carne con le zanne, che si leccasse la ferita cancellando l’infezione, che reimparasse a correre e che trovasse una valle segreta, dove c’era ancora acqua e neve e cibo e femmine di leopardo e... Scosse la testa.

Ma che cazzo mi metto a pensare? Si disse. La cosa migliore è trovare l’animale, ammazzarlo e levarsi di qui.

Per le prime tre ore di cammino non parlò nessuno. Lobsang apriva la pista  lungo un sentiero che seguiva il corso dell'ennesimo fiume estinto. Il paesaggio si indurì, finché anche i cespugli più resistenti non sparirono e ci furono solo polvere, sassi e cielo. Un cielo pesante, pensava Elvira, completamente tesa nel desiderio di uccidere l’animale e scuoiarlo con le proprie  mani.

Si portò la mano alla cintura ma non trovò quello che cercava. Si voltò verso Isabel, che le camminava appresso mano nella mano con Eduardo.

«Dov’è il mio coltello, Isabel?»

«Credo che tu l’abbia messo nel mio zaino».

«Nel tuo zaino?»

«Sì, un paio di giorni fa».

«Non ricordo di--»

«Vuoi che te lo dia?»

«Non ora, sennò ci seminano. Me lo darai più avanti».

Mezz’ora dopo il sentiero digradò verso il letto secco del fiume. Lo attraversarono passando sotto i resti di un ponte distrutto cinquant’anni prima da un’indondazione. Poi ricominciarono a inerpicarsi.

Sul nuovo sentiero apparve un muro di Mani e poi una serie di stupa bianche con gli apici mozzati. Quando il sentiero si allargò, alzarono le teste e videro delle antiche casupole di pietra dipinte di bianco, cresciute dalla roccia come se ne fossero una generazione diretta. Era un vecchio monastero Gelug disposto su tre livelli intorno a una sorgente sacra. In basso c'era un cortile di pietra e lì Lobsang si fermò. Hamed si sedette sulla scalinata che portava al livello superiore, dove un tempo i monaci bambini si riunivano per le preghiere. Il cacciatore e Isabel si scambiarono uno sguardo di intesa, la donna rivolse un sorriso enigmatico a Elvira, appoggiò lo zaino a terra, tirò fuori la borraccia e la passò a Eduardo, che bevve a grandi sorsate.

«Questo era il monastero di Phuktal, uno dei più importanti della zona. Ci abitavano una sessantina di monaci bambini e i loro maestri, un tempo» disse Hamed mentre sbriciolava dell’erba in un pezzo di carta.

«E poi?» chiese Elvira.

«E poi è finita l’acqua, e c’è stata la guerra. Alcuni monaci hanno combattuto. E sono morti tutti».

«È un bel posto, triste e affascinante. Non credi, Elvira?»

«Quanto ci fermiamo, Hamed? Io non sono stanca, possiamo proseguire» disse l’altra.

«Oh, noi ci fermiamo giusto due minuti» rispose Hamed.

«Io e Eduardo staremo qui e vi aspetteremo, invece» disse Isabel.

«Esatto, Isabel e suo figlio staranno qui» ribadì il cacciatore. «Il posto indicato da Lobsang è vicino, basta svoltare a ovest dopo quella grotta laggiù».

«Ma di cosa parlate?» disse Elvira. «Eduardo viene con me, come sempre». Camminò verso il ragazzino, che provava a guardare dentro un’antico tempietto con le mani a coppa appoggiate a una finestra. Isabel si mise tra lui e la moglie che avanzava con passo deciso.

«Non te lo posso permettere, Elvira. È pericoloso. Non hai visto la reazione ha avuto la prima volta?»

«È mio figlio, Isabel. Ricordati che è mio figlio. Decido io cosa è bene per lui. È stato con me in Namibia quando abbiamo ucciso gli elefanti, in Groenlandia con gli orsi bianchi, in Canada con i bufali. E lo voglio con me quando tiro giù questo cazzo di leopardo».

«È nostro figlio, Elvira, non è tuo, e--».

«Levami le mani di dosso!»

Eduardo intanto faceva finta di niente, come se non si accorgesse di nulla. Hamed andò a dividerle, e parlò loro con voce calma.

«È inutile che litighiate. La cosa è decisa, io e Isabel ne abbiamo parlato ieri notte. Io, lei e Lobsang proseguiamo, loro ci aspettano qui».

«Ah è così! Altro che stelle e stelle, puttana. E che altro avete fatto?»

«Non fare scenate, Isabel».

«Io porterò anche Eduardo. Che lei lo voglia o meno».

«Le ripeto, la faccenda è chiusa» disse il cacciatore. «Lobsang porterà il suo fucile. Andiamo».

«Ah sì? E allora io la pagherò metà della cifra pattuita».

Hamed buttò a terra la sigaretta che si era appena acceso, e si fece sotto. Da vicino quell’uomo incuteva spavento, con i suoi occhi spalancati e le sue mani enormi; strinse il braccio della donna senza smettere di sorriderle.

«Non direi sciocchezze, se fossi in lei. Se vi abbandono qui, dubito che riusciate a tornare a Leh da sole».

Elvira voleva rispondergli nuovamente ma i suoi occhi non riuscirono a sostenere la tensione e si abbassarono. Isabel andò dal bambino, che ora fissava la madre. Elvira si mise le mani sul volto, strofinò i palmi sulla faccia e poi li passò tra i capelli. Guardò in alto, vide un avvoltoio. Dietro l’uccello, apparivano nuvole crudeli. Globi neri e densi. Andò dal bambino, provò ad abbracciarlo ma Eduardo si nascose dietro al corpo di Isabel, strofinandosi il palmo di una mano con le dita dell’altra.

«Andiamo, sta arrivando la pioggia» disse Hamed. «Ve l’ho detto che stava arrivando. Dobbiamo sbrigarci».

 

-

 

Si arrampicarono per un’altra ora. Una salita ripidissima tra massi spezzati da terremoti. Superarono la cresta e trovarono montagne nere. Lì li aspettava il figlio ventenne di Lobsang, in attesa dall’alba che il padre e gli stranieri lo raggiungessero. Confabulò con Hamed.

«Ci siamo» disse il cacciatore alla donna. «Rinchen mi ha confermato che il leopardo si nasconde tra quelle rocce laggiù. Probabilmente sta aspettando la morte».

«Facciamola finita, allora. Ammazziamolo».

Sulla donna era calata una stanchezza inaspettata, segni scuri sul volto come se nell’ultima ora fosse invecchiata di dieci anni.

«Cos’ha?» le chiese Hamed.

«Nulla, non ho nulla».

«Bene. Ci piazzeremo lì in fondo, nascosti dietro quel masso. Attenderemo per un po’ che la bestia si muova».

«E se non si muove?»

«Vorrà dire che le sue energie si sono esaurite. E allora toccherà stanarla. Ma ci conviene aspettare ancora, fino al tramonto. Male che vada, passeremo la notte al monastero e torneremo domattina».

Elvira non disse nulla, imbracciò il fucile lasciato a terra da Lobsang e presero a camminare lentamente verso il basso.

«Perché loro due non ci seguono?» chiese dopo qualche passo.

«Hanno detto che non vogliono assistere».

«Non vogliono assistere?»

«Per loro quello che facciamo è sleale. Spariamo a una bestia che non si può difendere, e la inseguiamo quando è ferita».

«E lei cosa pensa?»

«Io penso che sia il caso di farla finita. L’animale sta certamente soffrendo. E poi, potrebbe trovarselo davanti qualcun altro».

Ma per la verità non era questo ciò che pensava, stava elaborando un piano diverso dal solito.

«Ora stia dietro di me, uno o due metri, e metta i piedi esattamente dove li metto io. Non siamo più sottovento, purtroppo».

Raggiunsero il nascondiglio, si sdraiarono a terra e si misero in attesa. Mentre Elvira tirava fuori il Sako e lo posizionava in modo da avere la mira pulita, Hamed si mise a scrutare rocce e buchi in cerca di segni del passaggio del leopardo. Vide o credette di vedere delle tracce di sangue, nella luce del sole che diveniva sempre più debole per via delle nuvole pesanti che si condensavano lentamente sopra di loro.

«La pioggia è pericolosa quassù» disse.

«Perché è pericolosa?»

«Lo è e basta».

E pochi minuti dopo, visto che Hamed l’aveva chiamata, la pioggia arrivò.

Iniziava sempre sotto forma di gocce fine e veloci, e Hamed sapeva che presto avrebbe dato sfoggio di grande aggressività, e che sarebbe durata per giorni. Acqua terribile, che quasi nessuno era in grado di bere.

Tirarono fuori le cerate dagli zaini, se le misero addosso in silenzio, ritornarono in posizione.

Elvira si piegò sul fucile e fu come se ficcando l’occhio nel mirino costringesse tutto il corpo nel piccolo cilindro di metallo e vetro, tutto il suo corpo mortale, e così facendo vide il leopardo che tirava fuori il muso serio e triste da una piccola tana improvvisata tra la polvere e i sassi. «Eccolo!» sussurrò, e Hamed percepì con disgusto la scarica di eccitazione che ridava fuoco alla donna. Merda, l’ha visto anche lei, pensò.

«Non distolga lo sguardo» le disse appoggiando una mano accanto alla canna del fucile. «Non tolga l’occhio dal mirino». Spostò il palmo sopra la canna, con estrema delicatezza. Il leopardo tirò il muso fuori dalla sua tana.

Aveva sete. Lui era un animale, e non poteva sapere il motivo per cui veniva cacciato. Non poteva nemmeno sapere che era l’ultimo esemplare della sua specie. Aveva solo sete adesso, era tutto sete in lui: voglia di acqua che gli scorresse sulla lingua e nell’esofago e che penetrasse nello stomaco vuoto. Teneva le orecchie abbassate e il suo unico movimento era quello della coda che si alzava e abbassava. Gli occhi azzurri, trasformati in fessure dalla disperazione, chiamavano la morte senza che lui se ne accorgesse. La consapevolezza della fine era un sentimento vago, un fatto dello spazio e del tempo, non della coscienza. Di vera coscienza, del resto, il leopardo non ne aveva. Né aveva la memoria come ce l’hanno gli uomini. Memoria di immagini e di alberi e nuvole, astri e guerra, memoria di simboli. Aveva solo la memoria della carne, il leopardo, sensazioni che riapparivano nei sogni.

Aveva sete, e così era arrivata la pioggia.

Tirò la testa fuori dal suo rifugio, la alzò al cielo, vide nero, sentì l’acqua toccargli la lingua e fu felice. In quella felicità non c’era morte, perché i leopardi delle nevi non hanno consapevolezza della morte come ce l’hanno gli uomini. Il leopardo era felice, benché la morte fosse una certezza. Sentì la pioggia scorrergli sul manto e bagnare la ferita dandogli sollievo. Emerse completamente dal suo nascondiglio.

Davanti a lui, a circa quattrocento metri di distanza, riconobbe Eduardo; era il piccolo animale che, quando si erano visti la prima volta, lo aveva riconosciuto e aveva urlato; adesso il leopardo non scorgeva alcuna paura in lui, ma l'opposto, un sentimento che per il leopardo si chiama fame. Eduardo  correva velocemente verso il basso, senza far rumore, quasi volando, con in mano qualcosa – un coltello – e il leopardo sentì anche un tlac, rumore che gli era familiare – il colpo caricato nel fucile dalla madre, ignara del figlio che correva verso di lei. Il leopardo vide Eduardo spiccare un balzo magnifico, simile a quelli che, da giovane, lui compiva alla fine della caccia, con la certezza che la morbida carne di una capra blu sarebbe finita nel suo stomaco. Eduardo, da dov'era il leopardo, parve buttarsi su una roccia; l'animale si sporse ancora e vide che il coltello si infilava nel collo e poi nella schiena di Elvira, senza che la donna potesse fare nulla per salvarsi, come nulla potevano fare le capre quando le sue zanne ne penetravano la carne. Sentì la madre urlare. La lama entrò e uscì più volte, fino a quando Hamed non scaraventò via il bambino.

Il leopardo tornò a raccogliere l’acqua con la lingua e si riempì la bocca. Sentì che avrebbe vissuto sempre.